Relazione di Lorenzo Mortara dalla "Conferenza Mondiale contro la guerra, lo sfruttamento e il lavoro precario" (Mumbai, India, 18-20 Novembre 2016).
Grazie ai compagni di Tribuna Libera (Dario e Lorenzo in particolare qui sopra nella foto ricordo) che hanno reso possibile questo viaggio, e che hanno pubblicato la relazione sulla versione cartacea del loro sito: www.tribunalibera.altervista.org
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Fai pochi passi fuori dall’aeroporto e il tentativo della borghesia indiana di coprire la sua criminale schifezza, svanisce di colpo. Pochi chilometri di macchina bastano e avanzano per capire come l’imperialismo in combutta con la borghesia locale abbia conciato il proletariato indiano.
Mentre raggiungi l’albergo in macchina si snodano, dietro di te, catapecchie su catapecchie, strade dissestate e caterve di derelitti umani che vegetano agli angoli delle strade. Mucche e cani per strada che rovistano nell’immondizia completano il quadro di una bidonville a cielo aperto: benvenuti a Mumbai, capitale dello Stato del Maharashtra!
Mumbai è un città diroccata, sembra uscita da un bombardamento che ha colpito solo case e strade ma ha lasciato vivi, per quanto malandati, milioni di superstiti: 21 milioni per la precisione, 12 nella città vera e propria e altri 9 nel sobborgo di miserabili che la circonda.
Gli abitanti sono di una gentilezza e disponibilità incredibile e sembrano sempre indaffarati ad arrangiarsi la giornata, chi portando un carretto di frutta e verdura mezza marcia, chi parlottando agli angoli delle strade con qualche altro trafficante come lui, chi stando semplicemente seduto per terra sul marciapiede o nel suo negozio ad attendere chissà quale redenzione. Il via vai è continuo, e il traffico stradale nonostante sia sempre congestionato scorre con una certa fluidità, grazie agli abilissimi piloti dei Tuc, i caratteristici taxi indiani, che si infilano dappertutto con un’abilità che farebbe invidia ai migliori napoletani.
La città è divisa in due parti grazie alla generosa apartheid dei borghesi locali, che non vogliono troppa miseria nel loro centro, per cui i Tuc non possono entrarci e, per arrivarci, devi prendere un vero e proprio Taxi. Nonostante questa odiosa separazione, il centro non riesce a nascondere il degrado in cui versa il popolo. Come detto i Tuc non possono entrare, in compenso nessuno può scacciare il mare di mendicanti, per lo più bambini e storpi che ti seguono per chilometri mentre perlustri la città. Accanto ai grattacieli di recente formazione e ai magnifici edifici di coloniale memoria, l’industrializzazione dell’India non ha prodotto nulla di paragonabile a quella vista in Occidente, sfruttamento selvaggio a parte. L’idea che l’India possa agganciare il treno dello sviluppo capitalistico trasformandosi come un Paese più o meno europeo, non è appunto che un’idea da libro scolastico. Nonostante la crescita impetuosa, infatti, non si vede nulla di quello che pur sempre la borghesia ha fatto per trascinare fuori dal medioevo l’Occidente. Qui, l’industrializzazione selvaggia sembra un fungo cresciuto di colpo in mezzo al medioevo e non sembra avere la forza di riassorbirlo, tanto più che con la crisi la crescita rallenta e lo sviluppo indiano sarà sempre più speculativo, molto di più di quanto già non lo sia.
Qui un comunista non può che rafforzare le sue convinzioni e ridere ancora di più delle strampalate idee riformatrici. Come si può infatti pensare seriamente che tutto questo degrado possa essere cambiato poco a poco? Solo la rivoluzione potrà ridare l’India agli indiani, radendo al suolo questa città claustrofobica e ricostruendola da capo. È talmente evidente che lo sanno benissimo i proletari indiani. Solo borghesi e intellettuali da strapazzo lo ignorano.
È questo infatti che emerge dai resoconti della Conferenza. Con una forza lavoro al 90% senza diritti e precaria, mezza proletaria e mezza sottoproletaria, il riformismo borghese è segnato dal fallimento in partenza. E nulla lo potrà redimere.
La conferenza ha raccolto testimonianze da ogni angolo del globo. Molte sono andate perdute per la difficoltà della traduzione, ma saranno sicuramente recuperate nelle trascrizioni. Ma la testimonianza più importante di tutte, è quella che non abbiamo sentito, ma che indubbiamente rimbomba in ogni angolo delle strade e sta solo aspettando l’occasione per venire fuori. È l’urlo dell’indiano incazzato nero per tutto quello che deve subire per mantener i Birla e i Tata e altri parassiti come loro. E la mitezza indiana, non deve essere scambiata per rassegnazione. Nonostante la poca violenza che una situazione così dovrebbe generare, nonostante la fiera dignità con cui gli indiani sopportano la loro vita quotidiana, gli indiani stanno cercando di sbarazzarsi di tutto questo. E noi non siamo certo venuti qui per commiserarli, ma per aiutarli a farlo, tanto più che pur nella condizioni deprimenti in cui vivono, i proletari indiani ti avvolgono pur sempre col fascino irresistibile di una energia e di una voglia di vivere che può trasmettere solo un popolo di oltre un miliardo di persone straordinarie.
Lorenzo Mortara
RSU FIOM YKK
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